Un’insopportabile suoneria

suonerie

É una mattina silenziosa sull’autobus 21. Chi sale, chi scende, nessuno socializza. In Piazza dell’Unità all’improvviso un bambino canta ad altissima voce “na na yuppi yuppi eh”. In molti si girano per vedere chi è ma c’è solo una donna bassa, tarchiata, con una giacca di pile nera e i capelli a scopetta. Prende dalla tasca uno di quei vecchi Nockia di plastica, pigia un tasto e spegne la voce del bambino. È russa o giù di lì. Risponde, dice due cose, chiude il cellulare e lo rimette in tasca. Davanti alla stazione di nuovo “Na na yuppie yuppie eh”, qualcuno si gira, qualcuno sospira, lei riprende il cellulare, risponde, dice due cose, chiude e lo rimette in tasca. In via Amendola si sente, sempre ad altissimo volume “pciu, pciu”, quel suono che si fa arricciando le labbra per chiamare gli animali. Anche in questo caso in tanti si girano, qualcuno cerca un animale ma è sempre lei, la russa o giù di lì, che risponde al telefono, dice due cose, chiude e lo rimette in tasca. Due arzille vecchiette sedute qualche sedile più in là commentano: “ Eh, scion simpatiche quescte suonerie”, “Sci, come un gatto attaccato ai maroni, direbbe il mio primo marito. Scusi la volgarità…” “Sci figuri”. Il viaggio continua silenzioso, adesso che la russa o giù di lì ha preso il suo zainetto nero ed è scesa alla fermata di via Marconi, di buon passo.

Le arzille vecchiette e le chiacchiere sui depressi (in un giorno di pioggia)

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Una donna  é seduta alla fermata dell’autobus 21 in via Marconi con una sigaretta tra le dita davanti alla bocca. É gonfia, non grassa, gonfia di psicofarmaci e altre sostanze. Lo dicono i suoi occhi immersi nel vuoto del portico di fronte. La sigaretta é una bacchetta  di cenere piegata verso il basso, il fumo le va dritto negli occhi arrossati e sui capelli biondi bagnati, o unti, chissà. Ricorda una bambola gonfiabile troppo usata dalla vita, abbandonata su quella panchina  a bruciare con la sigaretta. Arriva l’autobus 21, si ferma ma lei rimane lì, immobile, con gli occhi fissi nel  portico nascosto dal serpente di ferro rosso scuro. Una vecchietta tutta vestita di viola, con sciarpa e cappellino lillà, la guarda, guarda la sua vicina di sedia e dice “Mo che brutto vedere…Di gente messa coscì ce n’é scempre di più”. “Eh sci” aggiunge un’altra con un cappotto a spiga degli anni ottanta,  “ha scentito di quell’autiscta  depresso che ha schiantato l’autobus contro una montagna?” “Ah…ma lui lì non era mussulmano?” chiede una terza con i riccioli grigio chiaro.  “Mo che, era tugnino e comunque non era un autobus quello che ha schiantato. Era un aereo”  interviene spazientita una signora con gli occhiali blu.  “Veh, e poi uno dice che non deve impazzire. Con tutte quescte informassioni, il cervello va in pappa” chiude la vecchietta vestita di lillà, che invece vorrebbe  parlare della bambola bionda lasciata a bruciare alla fermata. Nel frattempo ha notato un rivolo d’acqua che scorre lungo il finestrino e una goccia che cade imperterrita sul cappotto di un uomo. Prende uno scottex pulito dalla sua borsetta, si alza e va ad asciugarla, che dei gesti così, gratuiti, a volte son più efficaci di tanto chiacchierare.

 

 

A scuola di italiano dall’arzilla vecchietta

giappone

In via Marconi salgono sull’autobus 21 tre giapponesi, un uomo e due donne giovani che parlano fitto nella loro lingua. Dopo una lunga conversazione  in cui di tanto in tanto saltano su parole italiane come domani, strada, mangiare lui dice “non-ca-pi-sko kue-sto-mon-do”. L’arzilla vecchietta di San Donato commenta “Non z’è mica niente da capire. L’è un gran casen”. Il giapponese si alza, giunge le mani davanti al viso, fa un inchino e ringrazia dicendo che sta andando a scuola di lingua italiana. “Mo bravo” risponde lei “Impari pure l’italiano ma lasci ben perdere di capire quescto mondo. Non scerve a una cippa”.  Dipartimento autobus educazione